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JG BALLARD - LA MOSTRA DELLE ATROCITÀ: INTERSEZIONI TRA REALTÀ E FINZIONE



Dopo Il mondo sommerso, Foresta di cristallo e Terra bruciata, romanzi che fanno parte della quadrilogia di inizio carriera dedicata alle catastrofi, James G. Ballard cambia improvvisamente rotta. Lascia da parte tutto l’immaginario fantastico che faceva da contorno a quei romanzi per concentrarsi su una fantascienza del presente, ambientata nel paesaggio reale e quotidiano delle metropoli dominate dai massmedia. Non si tratta di una scelta calcolata ma di una graduale presa di coscienza.
Terra bruciata parlava di luoghi deserti. Mentre scrivevo mi sono accorto che stavo iniziando a esplorare la geometria di un genere di paesaggio del tutto astratto, e relazioni astratte tra i personaggi. Proseguii scrivendo un racconto, La spiaggia terminale, ambientato a Eniwetok, l’isola del Pacifico dove è stata testata la bomba H. Anche in quel caso mi accorsi che i protagonisti e gli eventi della storia erano molto astratti, persino paragonabili al cubismo. Isolavo certi aspetti dei personaggi e della narrazione come un investigatore scientifico seziona una strana macchina per capire come funziona. Le mie nuove storie […] sono un ulteriore passo avanti.”
Le nuove storie di cui parla James G. Ballard in questa intervista d’epoca (raccolta insieme a molte altre nel volume Extreme Metaphors curato da Simon Sellars) sono quelle che costituiscono La mostra delle atrocità, pubblicato nel 1970 dopo una gestazione abbastanza lunga nel corso del decennio precedente. Non è esattamente un romanzo e non è nemmeno una raccolta di racconti, semmai è un mosaico ai limiti dell’astratto il cui scopo è ritrarre il paesaggio tecnologico e mass-mediatico degli anni Sessanta. A dominare questo paesaggio è la televisione, “un terzo occhio trapiantato in noi in grado di percepire il nostro comportamento” e più in generale dalla spettacolarizzazione della vita. Status-symbol, automobili, star hollywoodiane (Elisabeth Taylor, Marilyn Monroe, i Kennedy, James Dean), tensioni politiche, corsa allo spazio, eventi e morti tragiche: sono questi i protagonisti di La mostra delle atrocità.


Il clima psicologico degli anni Sessanta è qualcosa di inedito nella Storia fino a quel momento: “Stavamo vivendo sempre di più all’interno di una strana, enorme opera di fiction”, spiega Ballard, dove realtà e finzione “avevano iniziato a scambiarsi e l’unica cosa reale era la nostra mente”. Uno dei motivi ricorrenti del libro è l’assassinio di Kennedy a Dallas, il più importante evento del decennio. I Kennedy, per Ballard, “sono l’equivalente della Casa degli Atreides nel Ventesimo secolo. La loro storia rappresenta particolarmente bene il modo in cui poco a poco gli elementi di finzione presenti nella realtà quotidiana hanno finito per mascherare completamente i cosiddetti elementi reali. La stessa cosa succede in politica: le elezioni presidenziali americane sono nientemeno che lo scontro tra due sfere di fiction“.
La vita quotidiana è pesantemente influenzata dalle immagini proiettate da giornali, televisione e insegne pubblicitarie, che dettano le regole e cambiano il modo in cui la gente sceglie di vestirsi, arredare casa e relazionarsi con gli altri. In questa visione ha un ruolo centrale il concetto di “spazio interno” (inner space) teorizzato da Ballard oltre dieci anni prima. “Molto di quello che una volta era lo spazio psicologico racchiuso nella mente di un individuo, le sue speranze, sogni e tutto il resto, è stato trasferito dall’interno dei nostri crani all’apparato sensoriale artificiale rappresentato dai media". Vale a dire che è l’ambiente a sognare al posto nostro, a generare le nostre speranze e ambizioni. Tutto il libro si incentra sugli eventi che hanno costellato gli anni Sessanta: il suicidio di Marilyn Monroe, la guerra del Vietnam, l’apparizione di figure politico-televisive come Ronald Reagan, la gigantesca esplosione dei mass media, il modo in cui la politica e le aziende pubblicitarie hanno cominciato a sfruttare il potere della televisione; poi il razzismo, la droga e la controcultura giovanile.
L’ispirazione di Ballard, in questa come in altre sue opere, è l’Inghilterra londinese nella quale vive, tuttavia La mostra delle atrocità non si ambienta in un luogo geograficamente definito, ma in “un paesaggio che vediamo nella nostra mente, che ci portiamo con noi”, un posto qualunque del mondo civilizzato. Allo stesso modo, le storie hanno per protagonista tante varianti dello stesso nome e dello stesso uomo (Travis, Traven, Tallis, Talbot) che appare in ruoli e situazioni differenti, stratagemma con il quale Ballard intende esaminare ogni aspetto della sua personalità. Chi è quindi il protagonista? Da un lato è una figura ricorrente nelle opere dell’autore britannico, un uomo in crisi psicologica che tenta di reinventare la realtà circostante per trarne un significato più autentico e nuovi schemi di sopravvivenza. Dall’altro, però, in La mostra Ballard sceglie il suo protagonista più emblematico: Travis è uno psichiatra che soffre di un esaurimento nervoso e mentale.


Negli anni Sessanta in tv passavano in diretta cose come la guerra del Vietnam e la fucilazione di Lee Harvey Oswald, e questo dava la sensazione che tutte le regole fossero cambiate, “che il mondo fosse diventato una specie di folle istituto psichiatrico. Mentre scrivevo mi sono reso conto che la figura che esprimeva meglio questa follia era quella di uno psichiatra che stava avendo una crisi psicologica”. Lo psichiatra, in quanto medico, dovrebbe essere una figura di speranza e razionalità. Se lo psichiatra stesso è vittima di un collasso mentale significa che le cose sono davvero precipitate. È questo il personaggio che serve a Ballard per esprimere la realtà che lo circonda.
I capitoli del libro sono degli “psicodrammi messi in scena da questo uomo infelice, che non ne può più. Ognuno si basa su qualche evento significativo”, spiega l’autore. “Lui cerca di riformulare gli eventi tragici in modo che abbiano senso. […] Ogni cosa, il mondo intero, per Traven è codificato, perciò tutto deve essere decifrato a livello psicologico. Allora, con un po’ di fortuna, i pezzetti di realtà inizieranno a collegarsi in un modo che avrà senso. Quindi potrà vedere il suicidio di Marilyn Monroe (sempre che sia stato un suicidio) o l’assassinio di Kennedy non come eventi per forza negativi, bensì positivi”. In La mostra delle atrocità, così come nel successivo Crash, i protagonisti sono ossessionati dal bisogno di costruirsi dei meccanismi psicologici per aprirsi verso altre possibilità.
Un bisogno che, in realtà, affonda le sue radici in un dramma personale vissuto dall'autore: la perdita prematura della moglie nel 1964 per colpa di una polmonite. “Anche quando il lutto era finito, uno o due anni dopo, avevo di fronte questo enorme dilemma: perché?” racconta Ballard. “Penso di aver utilizzato quella tragica morte come una sorta di modello da applicare alle più ampie tragedie di La mostra delle atrocità. Se Traven fosse riuscito a risolvere il mistero di Kennedy o della guerra in Vietnam, io avrei potuto fare lo stesso e capire il mistero della morte di mia moglie”.
Una delle prime conseguenze di un mondo dominato dalla tecnologia e dalla comunicazione è l’appiattimento dell’emotività, la morte del sentimento, e per contro l’emergere di nuove forme di rapporti sociali più marcatamente sessuali e violente, legittimate in quanto parte di una sorta di evoluzione naturale della società tecnologica. “La violenza probabilmente giocherà lo stesso ruolo, negli anni Settanta e Ottanta, di quello che il sesso ha giocato negli anni Cinquanta e Sessanta”, sostiene Ballard all’epoca dell’uscita del libro. La storia gli ha dato ragione.


L’elemento che più di ogni altro favorisce l’emersione di impulsi sessuali e aggressivi, almeno nell’epoca vissuta da Ballard in prima persona, è l’automobile (su cui poi incentrerà Crash, altro romanzo fondamentale del periodo). Nelle interviste Ballard racconta di aver tenuto una mostra d’auto incidentate negli stessi anni in cui scriveva le storie di La mostra delle atrocità, e la descrive in questo modo: “non ho mai visto un centinaio di persone ubriacarsi così in fretta. […] C’era una ragazza in topless che intervistava le persone su una tv a circuito chiuso in modo che le persone potessero vedersi mentre venivano intervistate da questa ragazza in topless intorno alle auto incidentate. […] Hanno rovesciato vino, rotto dei finestrini, la ragazza è stata quasi stuprata sul sedile di una Pontiac. La mostra è durata un mese. In quel periodo abbiamo fronteggiato ostilità di ogni genere. Le auto sono state attaccate, hanno rotto i parabrezza, anche quelli che non lo erano già. Una delle auto è stata capovolta, un’altra imbrattata di vernice bianca. E’ stata la dimostrazione pratica di una scena di La mostra delle atrocità. Nel libro avevo teorizzato il comportamento che la gente avrebbe potuto tenere e nella mostra vera gli ospiti e i visitatori si sono comportati all’incirca come avevo previsto”.
In un’intervista molto più recente, del 2006, pochi anni prima della sua scomparsa, Ballard ragiona con il senno di poi sulla società che ha cercato di descrivere in La mostra delle atrocità, una società (quella degli anni Sessanta appunto) che ha costituito il primo passo per arrivare a quella odierna. “Viviamo in una sorta di presente espanso enormemente, impacchettato come una città di case popolari”, dice. “Oggi nessuno è interessato al futuro. Credo che il futuro sia morto nel 1945 con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. […] La gente è spaventata dal futuro e dalla scienza. La scienza è diventata quasi una forza illecita, manipolatrice della struttura genetica, generatrice di nuove malattie, sperimentatrice con la chirurgia […] Allo stesso modo abbiamo perso completamente interesse per il passato; il passato è un programma in tv che parla di Hitler”.


Per comporre La mostra delle atrocità, Ballard frammenta la realtà e la riassembla elemento per elemento. Il libro, infatti, si costituisce di pseudo-racconti che sono in realtà i capitoli di una narrazione più ampia, onnicomprensiva, i quali a loro volta si costituiscono di paragrafi brevi e staccati tra loro. Questo conferisce al libro una struttura a mosaico dove ogni tessera è leggibile come pezzo a sé stante oppure insieme a quelle vicine, in un contesto più ampio.
L’ordine non segue una sequenza lineare, molto spesso rasenta la casualità (come la vita reale), ma gli elementi e le immagini sono connesse gli uni agli altri. Ballard usa chiamare questa narrazione condensed novels, ovvero “romanzi condensati”. Dal surrealismo di lento respiro narrativo di opere come Il mondo sommerso, si passa qui all'astrattismo, alla pop-art e a un ritmo serrato e nervoso. Per esempio nel capitolo Il lifting al volto della Principessa Margaret, Ballard spiega di aver “preso il testo di una tipica descrizione di un’operazione di chirurgia plastica, un lifting del volto, e dove nell’originale c’era scritto ‘il paziente’ io ho inserito ‘la Principessa Margaret’. Quindi ho fatto precisamente ciò che facevano i pittori pop art, prendendo immagini dalla vita quotidiana – bottiglie di Coca Cola, Marilyn Monroe – e manipolandole”.
Ballard traspone su carta anche la tecnica cinematografica del primo piano, tipica per esempio del cinema western, descrivendo immagini con dovizia di particolari. Il primo piano “non vuole esprimere niente della personalità dell’uomo, solo mostrare un dettaglio. In La mostra delle atrocità ho utilizzato i primi piani, ad esempio, per mostrare solo il braccio di una ragazza sullo sfondo di un’automobile”.
Dato che per Ballard lo stile è sempre in funzione del contenuto, questa scelta apparentemente difficile gli consente di ritrarre il paesaggio reale della vita negli anni Sessanta e i dubbi di chi vive in questa epoca, riflettendo la complessità e la stratificazione della realtà nuda. “Quando metti insieme i pezzi importanti, e li metti insieme davvero, senza separarli da enormi quantità di ‘lui disse, lei disse’, porte che si aprono e si chiudono, ‘la mattina dopo’, […] realizzi che esistono incroci e collegamenti tra cose, eventi, elementi della narrazione che prima erano inaspettati e totalmente scollegati, idee che generano da sé nuovo materiale”.


Per Ballard esistono diversi livelli che compongono l’esperienza umana del mondo esterno e lo stile dei “romanzi condensati” gli permette di esaminarli simultaneamente. “Il livello degli eventi globali, come la guerra, la conquista dello spazio o la storia di Kennedy; il livello della vita quotidiana, della gente che si mette in auto ogni mattina, lavora in ufficio, viene ricoverata in ospedale, eccetera; e il livello delle nostre fantasie”. L’obiettivo di La mostra delle atrocità è fondere i tre livelli così come accade nella realtà, nella nostra vita. Cosa impossibile da ottenere con la consueta narrazione lineare, realistica, una ferrovia che va da A a B senza possibili deviazioni. “Il mio scopo”, spiega, “è quello di mostrare che questi tre livelli – pubblico, privato e fantastico – si fondono l’uno nell’altro: tra essi esistono dei punti di intersezione. […] Sono convinto che quando un evento ha luogo in uno dei tre livelli di cui parlavo prima, necessariamente ha effetto sugli altri due, in modo più o meno percepibile.
"Perciò in La mostra delle atrocità parlo del suicidio di Marilyn Monroe perché lo ritengo non soltanto la morte di una donna, ma una specie di disastro spazio-temporale, una catastrofe che ha creato una rottura nella nostra percezione del tempo e dello spazio, come se assistessimo all’improvviso collasso di un oggetto inamovibile davanti ai nostri occhi. In effetti, Marilyn Monroe, i Kennedy e gli astronauti sono parte del nostro paesaggio mentale tanto quanto le case e le strade che frequentiamo”.
Qualcuno sostiene che William S. Burroughs avrebbe influenzato Ballard a partire da La mostra delle atrocità, ma a ben guardare il loro stile, pur arrivando a risultati talvolta similari da un punto di vista estetico, si basa su visioni e obiettivi che si collocano agli antipodi. Burroughs scrive senza struttura narrativa né pianificazione, affidandosi a flussi di coscienza joyciani, descrivendo mondi completamente soggettivi. La sua celebre tecnica del cut-up (rimescolamento delle frasi con un taglia-incolla casuale) viene impiegata per riflettere la natura del mondo per come realmente è, secondo Burroughs, ovvero rivelata dalle associazioni casuali. Ballard invece adotta uno stile sperimentale, però mantenendo struttura e obiettivi ben chiari e definiti, una posizione quindi opposta a quella del grande scrittore Beat autore del Pasto nudo.
Approccio che lo allontana anche dalla letteratura modernista sperimentale del Novecento. “Non è importante per me indagare sulla sensibilità interna, come i grandi [autori] modernisti”, spiega Ballard. “Qui è il mondo esterno a essere onnipresente, mentre [per i modernisti] esso non ha alcuna rilevanza”. A una prima lettura La mostra delle atrocità trasmette un senso di appagante stordimento e la sensazione che voglia svelarci delle verità segrete, criptiche, difficili, ma certamente autentiche. Si tratta probabilmente il romanzo più rappresentativo e importante di James G. Ballard, ma anche il più difficile da leggere e da comprendere, a meno che non si conosca a fondo l’autore e le sue motivazioni (e mi auguro di aver contribuito allo scopo con questo lungo articolo).



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